Nel 1965 la decisione. La via del non ritorno

Trasferimento a S. Antioco

 

Nel 1965 a mio padre con una lettera molto fredda  fu comunicata la sua messa a riposo. Come tutti notammo non vi era più la grande famiglia dell’Elettrica Sarda ma i dipendenti ormai erano diventati dei numeri nel grande calderone nazionale.  Nella Società Elettrica Sarda i dipendenti oltre che unità lavorative erano considerate persone facenti parte di una grande famiglia nella quale si conoscevano tutti. Una volta avvenuta la nazionalizzazione anche i dipendenti sono stati spersonalizzati e non esistendo più un interlocutore. Naturalmente dovemmo pensare al nostro trasferimento i miei genitori optarono per S. Antioco  anche perché  vi abitavano molti parenti di mia madre. Avendo abitato a Santa Caterina  desideravamo stare vicino al mare. Costruimmo la casa all’ingresso del paese  proprio di fronte alla laguna in una zona che in quel periodo era stata dichiarata zona residenziale ma poi ci dissero che invece era una zona industriale. Ci trasferimmo a S. Antioco appena completata la casa e lasciammo per sempre S. Caterina di fronte ho ancora la Centrale. L’ultimo ricordo che mi resta di Santa Caterina è la vista del cielo di un azzurro splendido.

Nel 1965 la decisione. La via del non ritorno

 

Arrivati a S. Antioco ci trovammo a convivere con uno stabilimento Sardamag che si occupava dell’estrazione dell’ossido magnesio dal mare. L’acqua residua veniva scaricata nuovamente  in mare ma essendo squilibrata da un punto di vista elettrolitico, il calcio in eccesso precipitava inquinando tutta la zona con grave danno per la flora e fauna marina. Dopo molte proteste, visto che l’inquinamento, stava rovinando delle bellissime spiagge, decisero di chiudere un tratto di mare per le acque di scarico ma lo scempio del paesaggio rimane ed è ancora visibile. La zona inizialmente era bella ma convivere con questo  impianto era allucinante. I fumi  erano asfissianti  scendeva una polvere grigiastra che si depositava dappertutto, eliminarla spesso era impossibile, nei marmi delle finestre formava un impasto grigio tanto duro da sembrare quasi cemento. Nella strada dove abitavamo erano stati piantati dei pini che apparivano tutti imbiancati e stentavano a crescere. La notte spesso venivamo svegliati dalla sirena che sicuramente segnalava un fuori servizio, cosi ero abituata a pensare, ma continuava a suonare per ore prima che qualcuno intervenisse. Un giorno mi lamentai dei fumi, che essendo lo stabilimento piuttosto basso ci cadevano costantemente addosso, mi risposero che i filtri esistevano ma venivano disattivati e non si provvedeva ad altre misure antinquinamento  perché avrebbe reso antieconomica la produzione, certo la salute dei cittadini era poco importante davanti al lucro dei titolari dello stabilimento. Purtroppo abbiamo dovuto sopportare tutto questo per molti anni, considerato che per diverso tempo l’impianto è sopravvissuto grazie ai contributi regionali. Finalmente fu definitivamente chiuso e demolito  nel  2008 ma i resti del disastro ambientale sono ancora evidenti. Ora nella mia zona ci sono dei prati fiori e una bella pineta  dove durante l’estate si può passeggiare e  prendere il fresco. Ma non posso dimenticare il tributo di vite e salute pagato dai cittadini, qualcuno non a torto, definì questo stabilimento “la fabbrica del cancro”. L’unica speranza è che si provveda ad un risanamento della zona dove sorgeva questo impianto che per tanti anni ha avvelenato la popolazione e che non ne resti neanche il ricordo.

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